MARIO MARTONE: “IL MIO LEOPARDI COME PASOLINI, VITALE E DISINCANTATO”
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Al Teatro Petruzzelli, una seguitissima Masterclass di Mario Martone è stata l’occasione di scoprire i legami del regista con Leopardi, al centro del film proiettato prima dell’incontro, il giovane favoloso, con il Risorgimento di Noi credevamo e alcuni retroscena di una carriera quarantennale tra teatro e cinema
“Con Il giovane favoloso ho voluto ristabilire la verità su chi era Giacomo Leopardi aldilà dell’etichetta di poeta pessimista che gli viene da sempre attribuita. Era un giovane che non accettava i conformismi e gli schemi. In lui convivevano due tensioni, lo slancio e il disincanto. Ho trovato diverse affinità con Pasolini, anche lui non allineato, appena tollerato, anche censurato. La disperata vitalità di cui parlava Pasolini è la stessa che si ritrova nello Zibaldone di Leopardi.”
“Il giovane favoloso” è il film che è stato proiettato stamattina al Teatro Petruzzelli prima della Masterclass che ha visto protagonista Mario Martone che, rispondendo alla prima domanda che gli ha rivolto il moderatore Enrico Magrelli, ha confermato essere il secondo di una trilogia iniziata con “Noi credevamo” e che si concluderà con il suo prossimo film che uscirà a ottobre di quest’anno, di cui però il regista ha anticipato solo il titolo, “Capri-Batterie”, e il fatto che sia ambientato nella Capri di inizio ‘900. Una trilogia del tutto casuale, come ha spiegato: “Non c’era nulla di programmato, è stato un vero work in progress che si è sviluppato attraverso gli anni. Quando con Noi credevamo scelsi di raccontare il Risorgimento, dell’800 non sapevo quasi nulla, da studente non mi aveva mai attratto, mi sembrava impolverato. Poi mi è venuto incontro con forza e leggendo alcuni libri di storia ho scoperto che la retorica che lo circondava era preventiva, che dietro l’immagine delle grandi battaglie c’erano tante cose. Realizzammo il film rifacendoci a tanti documenti storici, utilizzando lo stesso linguaggio dell’epoca, con una ricostruzione e riferimenti filologicamente inappuntabili, senza attualizzare nulla, andando contro i finanziatori che non erano convinti di ciò che stavamo facendo. Quando il film fu pronto uscì in pochissime sale ma poi ebbe una scossa, la gente faceva la fila per vederlo e ne furono stampate sempre più copie diventando quel grande successo che è stato.”
“Durante la lavorazione di Noi credevamo io mi sentivo guidato dalla voce di Leopardi, avevo già ritrovato nei suoi scritti gli slanci vitali di Mazzini e di altri rivoluzionari. Così decisi, dopo le riprese, di mettere in scena le Operette Morali ma anche in questo caso inizialmente nessun teatro lo voleva. Sennonché anche lo spettacolo, che era prodotto dalla Fondazione del Teatro Stabile di Torino che dirigevo all’epoca si rivelò un grande successo e fece il record di incassi. A quel punto pensai che potevo fare un film su Leopardi”.
“Il giovane favoloso è un po’ più ‘inventato’ rispetto a Noi credevamo ma il principio era lo stesso del film precedente, quello di rispettare la veridicità delle ambientazioni e il linguaggio. I dialoghi di Leopardi sono quasi totalmente veri, ogni frase attinge alle sue lettere e alle sue opere. Elio Germano è stato mio alleato in questo senso, come pure erano stati gli attori di Noi credevamo. La cosa curiosa è che io proposi il ruolo a Germano diversi mesi prima dell’inizio della lavorazione per dargli il tempo di prepararsi. Quando poi lui arrivò sul set non conosceva bene la sceneggiatura ma su Leopardi ormai ne sapeva più di me. E il suo lavoro sul corpo del poeta è stato perfetto, anche questa insistenza sulla rappresentazione della malattia ci era stata inizialmente contestata ma se non l’avessimo fatto avremmo tradito Leopardi”.
Dialoghi a parte, anche l’aspetto figurativo dei due film è nel segno dell’autenticità. “C’è un grande lavoro di preparazione visiva, sì, ma questo accade per tutti i miei film, quando prima di girare scatto diverse foto nei luoghi dove dovranno essere ambientati. E mi piace che siano luoghi autentici, che i muri siano effettivamente muri e non cartapesta, che trasudino vera umidità, che gli attori si muovano e agiscano in ambienti veri. Certo, talvolta non sempre è possibile, come quando per Noi credevamo dovevamo ambientare una scena nel carcere di Montefusco, in Irpinia, che però era stato restaurato e non restituiva più l’immagine dell’epoca. Anche in quel caso, però, chiesi alla produzione, che suggeriva di ricostruire l’ambiente in uno studio di posa, di girare in un carcere vero, quello di Bovino, proprio qui in Puglia. Per Il giovane favoloso, quindi, una gita a Recanati mi aveva fatto scoprire un luogo incantato, rimasto immutato nel tempo, che per me si è tradotto in desiderio di cinema”.
La Masterclass al Teatro Petruzzelli è stata anche un’occasione per rievocare gli inizi di Mario Martone e le principali tappe della sua carriera teatrale e cinematografica, che sarà festeggiata stasera sempre al Petruzzelli con il conferimento del Federico Fellini Platinum Award. A giugno, poi, a Napoli verrà inaugurata una mostra – o un “film flusso” com’è stato definito – a lui dedicata, “1977-2018. Mario Martone Museo Madre” con materiali provenienti dal suo archivio personale.
“Ho iniziato a fare teatro a Napoli a 17 anni in un periodo, la fine degli anni ’70, che non erano solo gli anni di piombo ma che ha rappresentato anche l’ultimo momento di grande esplorazione artistica, in cui c’erano vitalità, libertà e varietà. C’erano ancora Eduardo e la sceneggiata ma tante altre opportunità come quella di frequentare la galleria di Lucio Amelio, che portava a Napoli le opere degli artisti più importanti dell’avanguardia artistica internazionale e c’era la Cineteca Altro di Mario Franco, dove si potevano vedere i classici insieme alle correnti emergenti come il nuovo cinema tedesco. E poi tanta musica, tanta danza, tutto si mescolava e ti dava la possibilità di fare quello che ti veniva in testa e di condividerlo con altri. La mia storia, in questo senso, è parallela a quella di Toni Servillo con il quale in seguito ci siamo legati nei Teatri Uniti, insieme anche ad Antonio Neiwiller. I miei primi spettacoli erano performance, non c‘erano dialoghi, in qualche caso neppure attori. Il cinema era ben presente, nel senso che proiettavamo super8 o diapositive durante gli spettacoli, praticamente era un cinema senza macchina da presa, stavamo creando un linguaggio nuovo. Poi però la contaminazione tra cinema e teatro non mi è bastata più, è iniziato un mio rapporto con il testo e con la parola, il mio teatro si è prosciugato e si è creato un divario con il cinema. A quel punto si è aperta l’opportunità di girare un film e abbiamo fatto, con la stessa cooperativa teatrale che avevamo fondato, Morte di un matematico napoletano.”
Al termine della Masterclass, Martone ha regalato al pubblico una confidenza inedita: “Alla vigilia delle riprese di ogni mio film ho un piccolo rito, quello di riunire i collaboratori più stretti e vedere, insieme a loro, un film da me scelto. L’unica eccezione fu per L’odore del sangue. Che infatti andò male!”