Il 4 maggio 2019 Monica Vitti apparve sul grande schermo del Teatro Petruzzelli dove il Bif&st presentò in anteprima mondiale l’edizione restaurata dalla Cineteca Nazionale del film di Alberto Sordi “Polvere di stelle“, da lei interpretato, che fu in parte girato proprio in quel teatro. La risposta del pubblico fu eccezionale: il Petruzzelli (1.480 posti) era strapieno, e in tutte le scene in cui compariva il teatro si scatenavano gli applausi. Monica Vitti ora se n’è andata. Vogliamo ricordarla con questo suo “ritratto” scritto tanti anni fa dal direttore del Bif&st, Felice Laudadio, che in un articolo per l’Unità raccolse le ‘confessioni’ di una grande attrice che ha fatto la storia del cinema italiano.

Monica Vitti

Un’attrice allo specchio

Le paure, le angosce, i sogni, la voglia di vivere, i miei amici, la mia amica di Verona, Antonioni, il teatro, il mio uomo – straordinaria la gente di Puglia –, mia madre, il matrimonio cui non credo, gli occhi di Picasso, la violenza delle interviste, gli oggetti che cerco, che scelgo, che amo, i vini che mi piacciono, quel grande vecchio che è il giovanissimo Buñuel, le scelte professionali, i rifiuti, il rapporto con gli altri, certi quadri, certi libri, i miei compagni di lavoro, il cinema.

Il cinema mi diverte, col cinema mi diverto, devi cambiare continuamente tutto, esci ed entri da un personaggio, muti continuamente situazione anche quando giri lo stesso film, c’è l’incognito, c’è l’avventura, c’è l’imprevisto, alle quattro di mattina puoi trovarti su una barca per girare una scena, c’è bisogno di una certa luce che però non arriva, rimani lì ad aspettare, poi il momento è passato, niente, ci devi riprovare l’indomani se ti va bene, ma nel frattempo vai a girare un’altra scena da un’altra parte, è tutt’un’altra cosa, cambi abbigliamento, contesto, partner, devi dire nuove battute, fai la scena e via, subito un’altra, prova, riprova, prova ancora, e la mattina dopo torni sulla barca, alle quattro, ad aspettare la luce buona…

Come si fa a non divertirsi? Il cinema è come un esterno giorno, il teatro come un interno notte, ma non vuol dire che il teatro non mi piaccia, anzi, ci tornerei volentieri, ho cominciato col teatro, da ragazzina, da clandestina, i miei non volevano, mia madre ne soffriva, che mestiere è questo? Lo feci lo stesso, ero “la nemica” di Niccodemi in un teatrino che non c’è più vicino al Quirinale, dove mi ci aveva tirato una mia amica che un giorno me l’aveva proposto mentre io stavo lavando i pavimenti, e questo fatto io lo ricordo romanticamente, un po’ come una cenerentola scoperta dal principe, e dovevo recitare in uno spettacolo di beneficenza.

Io ero stata nei due giorni precedenti immobile su una sedia. Così potevo capire il problema, e quando la mia amica mi propose di fare la vecchia signora di Niccodemi accettai subito, chissà, mi sembrava una specie di fuga dalla mia realtà, quella di allora, quand’io ero molto infelice, per tante ragioni. No, non ho voglia di parlarne. Un critico scrisse di me come di una “straordinaria scoperta”, disse che rappresentavo uno di quegli “eventi” rari ma significativi che fan nascere le attrici, ma quando sventolai il ritaglio del giornale sotto gli occhi di mia madre la sua risposta fu la stessa, che mestiere è questo?

Sono molto testarda, il che non fa a pugni con la timidezza, e poi avevo deciso, la mia vita doveva essere il teatro, e così mi presentai agli esami per essere ammessa all’Accademia d’Arte Drammatica alla quale invece non fui ammessa, e allora mi ripresentai l’anno successivo, i commissari erano sbalorditi, Silvio d’Amico mi chiese perché volessi fare teatro a tutti i costi, gli dissi perché, mi ammisero.

Cominciai andando in giro con Italo Calvino per associazioni culturali a leggere Brecht che stava per essere pubblicato anche in Italia. Calvino doveva avermi vista ai corsi dell’Accademia dove io facevo di tutto per risultare drammatica ma il risultato vero era che tutti si spanciavano dalle risate quando recitavo, forse perché erano abituati alla recitazione di Gassman, che ci tenne alcune lezioni, e io mi ero messa in testa che mai e poi mai avrei voluto recitare come Gassman. Non volevo essere “altra”, volevo essere me stessa, pur se non ero molto sicura di chi fossi…

Lo scoprii con Antonioni, qualche anno più tardi, quand’ero ormai un’attrice di teatro che aveva interpretato il primo Osborne, Bernanos, Ionesco, quello di allora, e ancora Brecht. Antonioni mi ha permesso di “essere”. Mi ascoltava vivere. Mi ascoltava semplicemente. Mi ha fatto capire chi ero e perché dovevo restare com’ero. Essere me stessa. Aprirmi, chiudermi, riaprirmi, inventare, creare, pensare, discutere. Capire, capirmi, capire gli altri. Leggere. Ero molto ignorante e lo sono ancora. Ma mi sono buttata sui libri a recuperare una parte di quel che avevo perduto. Avevo sempre lavorato. Non c’era tempo: un alibi. I suoi film con me, Antonioni li ha fatti guardandomi, studiandomi, registrandomi nella memoria. Ma non sono mai stata una “cavia”. Ho collaborato, partecipato, e soprattutto capito, a cominciare da me stessa.

È da allora che s’è accresciuta la mia paura di girare a vuoto, di fingere, da cui questo gusto che ho per la verità, di cui sono golosa, come di un gâteau, di un dolce, pur se è spesso amara, quando la dico. Ho sempre preso calci sotto il tavolo e l’ho detta lo stesso. Forse perché sono attaccata alla realtà. E la realtà è vera. Non come i miei sogni. Ho un soprannome, fin da bambina: “Sogni brutti”. Continuo a farne, ancora oggi. Anche se non sono più triste come quand’ero bambina. Mi trovo allegra, anzi perfino spiritosa, e questa cosa m’è nata dentro col tempo, m’è cresciuta insieme.

Non mi sono mai sentita un recipiente vuoto da riempire. Sono sempre stata colma fino all’orlo, di tante cose, di tante paure e di angosce, di gioia di vivere e di contraddizioni. Non sono mai stata da uno psicoanalista per i miei sogni. Perché dovrei? Ho mille problemi quotidiani, reali: cerco di risolverli. Non lavoro per guadagnare ma perché ci credo, ha un senso: e poi, l’ho detto, mi diverte, mi fa star bene.

Sì, al teatro ci tornerei, se ci fossero dei testi. Un po’ mi spaventa l’idea di dover programmare con molto anticipo la mia vita, l’eventualità di dover rinunciare a lavorare nel cinema essendo impegnata per i sei mesi che una stagione teatrale richiede. Forse, non so, chissà…

Sì, è vero, ho scoperto proprio ieri di piacere molto alle donne. È strano che tu me lo dica oggi. Ieri è venuta da me una signora, una donna con quattro figli, mi ha portato una rosa, quella rossa che sta in quel vaso, mi ha detto di aver visto tutti i miei film e poi ha aggiunto: «Ah, se io avessi un uomo come lei». Ero sconcertata, anche se sono abituata a sentirmi fare dalle donne i complimenti più belli. E ora mi dici che delle altre donne ti hanno detto che io gli piaccio molto? Lo trovo bellissimo. D’altra parte il mio migliore amico, anche se ci vediamo raramente, è una donna. Chissà, forse tutto questo mi viene dal rapporto straordinario che ho avuto con mia madre. Io la trovo una donna incredibile, con quella sua pelle che profuma, ancor oggi, di rosa. Mi piace, mi piace moltissimo. Mia madre, mia madre. Sì, è vero, ritorna sempre mia madre nelle mie conversazioni, anche questa volta. Certo che ci sono delle ragioni. Di che parliamo?

Il mio corpo. Non mi piace. Ma è vero, ho un rapporto infantile, di scoperta continua, di sorprese. Tutti sanno la mia età, ma io mi sento giovane, giovanissima, perché mi sento giovane dentro. E questo si riflette sul volto, sul corpo. Dev’essere così. Ma ci pensi al volto di Picasso, a quei suoi incredibili occhi a spillo, vivi, vivissimi, giovanissimi, e aveva novant’anni? Gli veniva tutto da dentro.

Monica si alza e va a cercare delle sue fotografie da bambina. Le trova. Ritorna con due ritratti. Il primo la raffigura quando doveva avere dodici anni. Ben pettinata, il volto serio, in posa davanti all’occhio fotografico. Due grandi occhi, di una tristezza profonda, di una infelicità inspiegabile di cui solo lei, forse, conosce le ragioni. L’altro ritratto, invece, la mostra bambina, cinque anni d’età, forse. Ha i pantaloncini corti e una maglietta da spiaggia, a righe. È assolutamente a suo agio di fronte all’obiettivo, nel quale non guarda. Gli occhi sono allegrissimi, pieni di vita, di curiosità. Ha il braccio sinistro appoggiato all’anca, in una posa esibizionistica e molto sicura di sé. Sa di essere al centro dell’attenzione. È divertente. Fa sorridere.

Vedi, ero predestinata a fare l’attrice.

(l’Unità, 13 novembre 1978)

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