Dall’età di 18 anni, tengo regolarmente un diario nel quale annoto ogni sera ciò che ho fatto nel corso della giornata, le persone che ho incontrato e tutti quei dettagli che solo io riesco a cogliere. Si tratta di un esercizio che pratico solo per me stesso ma un giorno mio figlio ha minacciato di pubblicare i miei appunti il giorno dopo la mia morte, se non lo avessi fatto prima io. E così, dal momento che ci sono alcune cose che non avrei voluto che fossero divulgate, ci ho pensato io”.

Lino Capolicchio, volto iconico del cinema italiano, è stato ospite del Bif&st 2020 dove ha presentato ieri al Teatro Margherita la sua autobiografia “D’amore non si muore (Rubbettino Editore), in un incontro moderato da Enrico Magrelli.

Io avrei voluto intitolarla ‘Il tempo non esiste’ oppure ‘Il paesaggio dell’anima’, ma proprio il direttore del Bif&st Felice Laudadio mi ha suggerito di scegliere un titolo più semplice e cosi abbiamo deciso di ironizzare su un film che ho interpretato nel 1973, ‘D’amore si muore’, nel quale tra l’altro alla fine il mio personaggio si suicida”.

Il libro è una cavalcata vertiginosa attraverso una vita di incontri importanti che hanno segnato la carriera dell’attore ma anche la storia del cinema e del teatro italiano. Ma parte da più lontano, dall’infanzia di Capolicchio e dalla sua adolescenza a Torino.

Quando avevo 12 anni avevo un’amica più grande che un giorno mi disse che avevo una faccia da cinema. Le sue parole mi sconvolsero, da quel momento fare l’attore iniziò a diventare per me un’ossessione. Mi pettinavo come Tony Curtis e volli prendere lezioni private di recitazione.”

Aveva poco più di 20 anni quando Giorgio Strehler, dopo averlo visto recitare nel saggio finale dell’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Silvio D’Amico, lo volle per sostituire Corrado Pani da protagonista di “Le baruffe chiozzotte” di Carlo Goldoni, confermandolo nella stagione successiva con “Il gioco dei potenti” da Shakespeare.

Fu un vero colpo di fortuna, nel teatro come nel cinema non basta essere belli e bravi come lo ero io, ma ci vuole anche l’occasione giusta”.

Di occasioni, Capolicchio ne ha avute davvero tante: pochi anni dopo il debutto con Strehler, fu scelto come protagonista di “Il giardino dei Finzi Contini” di Vittorio De Sica, Oscar 1972 per il Miglior Film Straniero.

Un’altra circostanza fortunata, perché il film inizialmente avrebbe dovuto farlo Valerio Zurlini che non mi avrebbe mai preso.”

Il carnet degli incontri personali e professionali è davvero impressionante e include, tra gli altri, Richard Burton, Liz Taylor, Anna Magnani, Orson Welles, Franco Zeffirelli, Giuseppe Patroni Griffi, Giuseppe De Santis, i Beatles, Fabrizio De André, Dino Risi, Pier Paolo Pasolini (“Lei ha un viso bellissimo” mi disse “ma esprime tutta la decadenza della borghesia del ‘900”), Federico Fellini.

A quest’ultimo è legata quella che a tutt’oggi l’attore definisce “in assoluto la delusione più cocente della mia vita. Fellini mi mandò a chiamare durante la preparazione del ‘Satyricon’. Nel suo ufficio c’era la mia foto appuntata su una bacheca insieme a quella di Pierre Clementi, e io pensai: ’il ruolo è mio!’. E invece lui disse che il produttore Alberto Grimaldi avrebbe voluto me e Clementi ma che invece lui preferiva due volti sconosciuti al pubblico. ‘Se il produttore la spunta, allora il ruolo è tuo, ma se invece la spunto io…’. Purtroppo la spuntò lui”.

Un incontro decisivo, quello con Pupi Avati che lo avrebbe diretto in sei film per il cinema e due per la televisione. “Lui era fissato con me quando non era nessuno e io già al culmine della mia carriera. Mi mandava continuamente soggetti, trattamenti e sceneggiature e, a forza di rincorrermi, capitolai davanti ad un trattamento intitolato ‘La luce all’ultimo piano’ che da lì a poco sarebbe diventato ‘La casa dalle finestre che ridono’.

Siamo molto diversi come persone ma dal punto di vista artistico abbiamo la stessa visione e dunque sul set siamo stati sempre in piena sintonia. Ultimamente ho fatto con lui ‘Il signor diavolo’ per il quale riceverò un premio speciale il 5 settembre alla Mostra del Cinema di Venezia”.

Come si può leggere nella sua autobiografia, Capolicchio è stato anche un acuto talent scout. “Ho riconosciuto per primo le potenzialità e il talento di almeno quattro attori: Pierfrancesco Favino che esordì con me nel mio primo film da regista, ‘Pugili’ e poi Alessio Boni, Francesca Neri e Sabrina Ferilli, sulla quale da componente della commissione per l’ammissione al Centro Sperimentale di Cinematografia avevo dato un giudizio positivo ma che poi non fu presa, perché Franco Brusati riteneva che avesse un seno troppo pronunciato…”.

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